STORIA
L’unica certezza che abbiamo sull’Aglianico è che si tratta di una varietà molto antica, come testimonia anche il fatto che la sua famiglia nel corso dei secoli si è suddivisa in un gran numero di biotipi e sottovarietà: se non si può parlare ancora di vitigno-popolazione, non ne siamo lontani. Tutto ciò crea non poche confusioni, con il proliferare per ogni biotipo di Aglianico di sinonimi corretti ed errati. Probabilmente sotto il grande cappello delle storiche “vite ammine” erano inglobate numerose varietà diverse.
Già Catone e Strabone comprendono almeno tre varietà distinte, poi Plinio e Columella le suddividono ulteriormente in cinque o sei tipi. La prima domanda dunque, cui non si può dare risposta certa, è se l’Aglianico odierno sia uno dei vitigni che hanno reso famosi nell’antichità i vini della Campania Felix, in particolare quelli dell’Agerfalernus, e quindi se in qualche modo esso sia imparentato con le Amineae.
Anche se Plinio le considera uva autoctone per la lunga permanenza e la perfetta acclimatazione al terroir del litorale e dell’entroterra della Campania, è certo che esse sono state importate dai coloni Greci provenienti dalla Tessaglia, forse dagli Eubei, che nel VIII secolo a.C. fondarono l’Emporiòn di Ischia e di Cuma.
DIFFUSIONE
VINO
In condizioni ottimali le uve raggiungono un elevato tenore zuccherino (22-23%) e conservano integra una forte acidità tartarica, che risulta ancora più elevata nel biotipo Aglianico Amaro o Beneventano; possiedono, inoltre, un’importante struttura tannica. Il vino che se ne ricava è adatto al lungo invecchiamento e beneficia dell’affinamento in legno, a stemperare il carattere austero dovuto alla componente acido-tannica.
L’utilizzo della barrique, oggi diffuso in Campania e in Basilicata, riesce a domarne la foga, rendendolo più morbido e vellutato in tempi brevi.
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